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Il Disastro Del Vajont 50 Anni Dopo

vajont targa

50 anni fa, il 9 ottobre 1963, alle ore 22.39 un’enorme frana si staccava dal monte Toc finendo nella Diga del Vajont. Era l’inizio del disastro.

Una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. In circa 20 secondi la frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale.

L’impatto con l’acqua generò tre onde: una si diresse verso l’alto, lambì le abitazioni di Casso e ricadendo sulla frana andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un’altra si diresse verso le sponde del lago e attraverso un’azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località in Comune di Erto e Casso e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua), scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta, ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante. I circa 25 milioni di metri cubi d’acqua che riuscirono a scavalcare l’opera raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di circa 2000 persone (i dati ufficiali parlano di 1918 vittime, ma non è possibile determinarne con certezza il numero). È stato stimato che l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fosse di intensità eguale, se non addirittura superiore, a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Vi sono testimonianze di superstiti scagliati a diverse centinaia di metri di distanza prima ancora che la massa d’acqua piombasse al suolo, alla velocità di quasi 100 km/h.

Quel 9 ottobre 1963 gli abitanti della valle del Vajont erano tutti in casa per la cena. Molti davanti al televisore per vedere Real Madrid-Glasgow Rangers, la finale di Coppa Campioni di calcio.

Intorno alle 22:00, Giancarlo Rittmeyer, quella notte di guardia alla diga, chiama l’ingegnere Biadene, rappresentante della SADE. Comunica che la montagna sta cedendo a vista d’occhio. Chiede istruzioni. Biadene cerca di calmarlo, ma lo esorta a “dormire con un occhio solo”. Nella telefonata, si intromette la centralinista di Longarone, chiedendo se ci sia pericolo anche per quel centro. Biadene le risponderebbe di non preoccuparsi, e di “dormire bene”.

La storia del Vajont è quella di una tragedia annunciata. A mezzo secolo dal disastro del Vajont ricordiamo l’anniversario della tragedia più evitabile e drammatica che la storia d’Italia annovera dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Purtroppo, così come gli abitanti che subirono il disastro, anche alle istituzioni era ben noto il rischio che riguardava la costruzione dell’invaso e il suo riempimento. Rapporti continui, a partire dagli anni ’40, avevano informato, da una parte dell’insoddisfazione dei residenti per gli espropri a cui sarebbero stati soggetti in seguito alla realizzazione dell’opera e, all’altra parte, ai continui smottamenti cui l’area naturale circostante la diga era sottoposta.

Così, negli anni precedenti il disastro, si registrarono alcuni interventi “conservativi” al fine di limitare le frane in direzione della diga del Vajont, sempre più sollecitata dalla minaccia di una terra instabile.Lo Stato, però, decise di proseguire nei suoi intenti: l’opera venne mantenuta in funzione, i ritocchi degli ultimi mesi prima della sciagura dimostrano ancor più colpevolmente l’atteggiamento delle istituzioni, al corrente dei rischi corsi dalla popolazione ma, non per questo, pronta a interrompere il programma infrastruttuale. Ad assecondare la ragion di Stato, sia una scienza faziosa che una politica sorda alle lamentele dei cittadini: emergeva, un po’ alla volta, il quadro di silenzio, di inadempienze, di prove nascoste che avevano segnato la costruzione della diga fino al momento dell’onda fatale.

In questi giorni, assieme alla tragedia, viene commemorata anche Tina Merlin, giornalista dellUnità che aveva anticipato in diversi articoli i pericoli corsi dalla gente della valle del Vajont e per questo fu spesso censurata e oggetto di intimidazioni.

Oggi non resta che guardare attoniti le immagini ai telegiornali. Gente con gli occhi increduli che cerca tra il fango la casa che non c’è più, i parenti trascinati via dall’apocalisse di fango, i bambini in braccio ai soccorritori, vivi per miracolo.

Ho visto occhi di anziani piangere nelle immagini in bianco e nero, che non credevano a quello che era successo, attaccati alla speranza di trovare almeno i propri cari.

Ho visto quei bambini che risorgevano dalle macerie, quei ragazzi che lavoravano giorno e notte anche solo per restituire un corpo. E la tragedia tocca anche chi non l’ha vissuta direttamente con la sola forza delle immagini.

Oggi la tragedia vive nei racconti di chi c’era, di chi ha visto, di chi impotente ha perso tutto.

Sono passati 50 anni ma il dolore di questa catastrofe è ancora vivo e indelebile. La diga è ancora là, quasi a volerci ricordare che la natura non può essere comandata, modificata.

La tragedia del Vajont non va e non può essere dimenticata.

 

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