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La storia della Moéche

Moéca è il nome che i veneziani hanno dato al granchio locale (comune granchio ripario “Carcinus Mediterraneus”), quando esso arriva al culmine della fase di muta, con la perdita della sua corazza e prima che, in poche ore, a contatto con l’acqua salmastra o salata, se la ricostruisca.

Questa prelibatezza è definita anche la pepita veneziana. Il termine moéca ha, però, un altro significato: esso si associa anche all’effigie del leone di San Marco alato, simbolo della città, che sorge dalle acque (el leon en moéca).

LA MUTA DEL GRANCHIO: IL TEMPO DELLE MOECHE

Nelle poche ore in cui il granchio muta il carapace, diventa una preziosa leccornia, una specialità della sola cucina veneziana e la sua storia è ancora per molti assai misteriosa, nonostante le moéche abbiano conosciuto un boom nei consumi a partire dall’ultimo dopoguerra.

La tradizione delle moéche è presente soprattutto a Burano, dove operano alcune decine di famiglie di pescatori di laguna che continuano ad usare il tradizionale apparato tecnico delle reti da posta. In verità questa tradizione inizia solo dopo la metà del secolo scorso perché prima, e per ben due secoli, la “produzione” di questo stranissimo granchio era un segreto professionale dei moécanti di Chioggia, scoperto grazie alla furbizia e alla costanza dei pescatori di Burano.

Attualmente la produzione delle moéche avviene nella Laguna nord di Venezia dove negli ultimi decenni, per i mutamenti degli antichi bacini da pesca, sono cambiate anche le tecniche usate dai pescatori.

I pescatori di moéche, chiamati “moécanti”, pescano armati di una particolare rete collocata nei fondali bassi della laguna, la “trezza”. Si lavora sempre con le serraglie, dette in passato seràie da seca, che non sono più fisse. Oggi con questo nome i pescatori di Burano intendono lunghi sbarramenti di pali e reti (piantati ad ogni inizio di stagione), a cui sono collegate le trappole ad imbuto dette cogòlli, dove finiscono per intrappolarsi i pesci e i granchi in transito. Dunque anche i granchi verdi o comuni, che sono lunghi non più di 3 o 4 cm e che si confondono facilmente col colore dei fondi fangosi delle paludi lagunari.

Le due stagioni della produzione sono la Quaresima (marzo-aprile) e la fraìma (ottobre-novembre). Una volta catturate, le moéche vengono trasferite in sacchi di juta che hanno lo scopo di mantenere la giusta umidità durante il trasporto agli impianti di lavorazione. Nei casòni o casòti si compie la delicatissima fase di cernita che avviene in funzione dello stato biologico dei granchi e che si avvale della grandissima abilità dei moécanti. Questi li selezionano e immettono quelli prossimi alla muta, detti spiàntani (i moécanti conoscono ormai ogni segreto dei granchi), in grandi cassoni di legno, semisommersi, chiamati vièri, dove in breve tempo diventeranno moéche.

Quanto detto vale per i maschi, perché per le femmine il ciclo evolutivo è diverso. Esse, infatti, mutano solo alla fine della Quaresima, tra maggio e luglio. La muta per le femmine coincide con l’accoppiamento dell’estate e in autunno, quando sono piene di uova, non muteranno più e, se catturate, saranno mangiate con il coràl (a vòva, le uova). E queste sono le ma?enéte. Questi esperti pescatori (se ne contano solo una cinquantina ogni tremila pescatori), sono talmente abili nel loro lavoro da riuscire a distinguere praticamente ad occhio una moéca da una mazaneta. Per quanto possa apparire semplice, le fasi di cernita si rivelano molto complesse ed è forse l’aspetto in cui si percepisce meglio la specificità di questo modo di pescare i granchi tipico della Laguna.

MOÉCHE: QUALE FUTURO?

Quella delle moéche è una tradizione antica, ne parlava già nel Cinquecento il commediografo Andrea Calmo: «Mi vegno da Treporti, dove se descortega i granzi». È una storia che si perde nel tempo, fino al 1729, quando l’abate Giuseppe Olivi annota tra le pagine della sua Zoologia Adriatica: «I granchi per acquistare il loro accrescimento cambiano ogn’anno crosta. Nei momenti che precedono la muta i nostri pescatori li raccolgono e radunabili in carnieri tessuti di vinchi, volgarmente viero, li collocano a mezz’acqua nei canali. La nuova situazione non impedisce loro di svestirsi: essi perdono la vecchia crosta, e compariscono coperti dalla nuova, ancor molle e membranosa: in tale stato chiamati Mollecche, salgono anche alle mense più nobili».

Custodita per secoli dai pescatori di Chioggia l’arte viene svelata nel secondo dopoguerra alle famiglie nobili della Giudecca, per poi diffondersi in tutto il versante nord della laguna.

Tuttavia a causa della concorrenza dell’attività di allevamento e raccolta delle vongole veraci e soprattutto dell’inquinamento, c’è il serio pericolo che, nel giro di alcuni anni, questa ricercata specialità scompaia anche a causa del basso ricambio generazionale che può comportare la perdita di un grande bagaglio di conoscenze ed esperienze fondamentali in un’attività tanto impegnativa. Per tale motivo per le moéche è stato istituito un Presidio Slow Food, sostenuto dalla regione Veneto.

LA RICETTA: MOÉCHE FRITTE

Un piatto di lusso entrato in voga da una ventina d’anni. Oggi lo propongono i ristoranti à la page come ‘Le Calandre e Quadri’, ma anche moltissime trattorie con una vocazione per la cucina di mare. La tradizione vuole che i granchi vivi siano bucati con uno spillone per far fuoriuscire l’acqua interna. A questo punto la ricetta classica li propone semplicemente infarinati e fritti, mentre i più golosi li immergono nell’uovo per un paio d’ore prima di buttarli nell’olio bollente.

Una delizia per il palato impossibile da dimenticare, le «moéche» cucinate secondo la tradizione.

Ingredienti per 6 persone:

800g di granchi molli vivi
3 uova
farina
olio di semi
sale

Preparazione

Lavare i granchi in acqua salata, scolarli e, ancora vivi, sistemarli in una scodella con le uova sbattute (durante questo tempo le moéche mangeranno tutto l’uovo sbattuto fino a soffocarsi). In seguito vanno fritte in abbondante olio di semi e servite calde e croccanti.

Vino consigliato: bianco

 

 

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