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Maurizio Crovato

Il bello in maschera

Fa pensare che sia un rito antico nella Venezia moderna.
Oppure un rito moderno nella Venezia antica. Fatto sta, e questo è un dato etnologico,  che una cittadina storica e medioevale di nemmeno 60 mila abitanti venga invasa da oltre il doppio dei residenti e per giunta travestiti, nel senso della maschera e dei costumi. Oltre centomila in festa a piazza San Marco dopo il torpore invernale, ovvero dopo Natale, quando i colombi infreddoliti e senza mais si guardano attorno senza essere calpestati almeno per due mesi.

Carnevale fa rima con Venezia. Anzi la parola stessa nelle lingue del mondo, richiama alla città come i termini arsenale, regata, casinò, pantalone. Eppure si rifà a riti antichissimi che già nella civiltà romana coincideva con le feste del nuovo anno, con l’arrivo della luce primaverile, con la fine delle durezze dell’inverno, con la voglia di consumare e di infrangere le regole dell’ordine costituito. Ecco il senso della maschera, di mascherarsi. È comune in tutte le civiltà. Dai cannibali del Borneo, ai pigmei del centro Africa, agli indios del centro America. La maschera è voglia di cambiare pelle, di somigliare agli dei, di irridere il maligno, di uscire dal peso a volte insopportabile della quotidianità. Nella Venezia del ‘700, come ora il carnevale moderno viene identificato, mettersi in bautta o mascherarsi era una evasione dalle catene sociali. Il povero poteva travestirsi da ricco, il ricco godere delle semplicità dei poveri. La maschera ti nascondeva. Se fanciulla di nobili origini, potevi mescolarti e forse peccare con qualche giovane plebeo, Se villico, ti permettevi l’abito del pantalone. Ovvero del mercante veneziano, avido e maniaco del gentil sesso. Senza compromessi. Arlecchino si veste di pezze colorate, perché un vestito nuovo non se lo può permettere. Ma così vestito e con il mestolo della polenta, che ricorda la fame antica, può irridere del potere. Beffeggiarsi dell’ordine costituito, del clero, dei ricchi. Ho visto in questi giorni una donna in maschera vestita da cortigiana. Scherzava in pubblico proponendo atteggiamenti equivoci o peggio lascivi. Dentro di me pensavo. Magari dietro e oltre la maschera sará una bacchettona quotidiana irreprensibile che desidera uscire dal suo guscio sociale. Il Carnevale, almeno per una settimana all’anno te lo permette. Altri retropensieri. Gli uomini travestiti da donna. Segno di tendenze inconfessabili? Il rito di esibirsi, di farsi fotografare, di apparire davanti ai fotografi, davanti ai veri guardoni del carnevale di Venezia. Una trasgressione di massa, camminando tra calli e campielli. Le vere quinte del rito veneziano.   Lo immaginate voi le stesse maschere al centro di Milano? Perderebbero forza e ragion d’essere. Venezia è naturalmente la città degli incontri, fisici, sociali, mascherati. Mi viene in mente un vecchio amico, morto da alcuni anni. Il conte Targhetta. Era ligure, di vaghe origini francesi. Un nobile quasi decaduto che considerava Napoleone come un imbecille. Non rinunciava al Carnevale di Venezia. Aveva un palazzo alle Fondamente Nove. Passava tutto il suo tempo a disegnare e cucire gli abiti delle feste. Si faceva tutto lui con una precisione maniacale. La parrucca doveva essere come nel ‘700’ fatta a mano, i merletti fatti con il tombolo, le scarpe copiate al museo di Ca’Rezzonico. Poi andava alle feste. Si sentiva veramente se stesso. Un nobile rovinato dalla Rivoluzione  Francese. In questi giorni ho visto la protesta degli studenti universitari in mutande e in maschera. Anche loro si sentono come il nobile Targhetta. Rovinati dalla rivoluzione dei nostri tempi.

di Maurizio Crovato 

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